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Palermo

Il blindato, l'aula bunker e le gabbie: i trent'anni del maxiprocesso alla mafia

Il 10 febbraio 1986 la prima udienza del dibattimento che segnò  una svolta nella lotta a Cosa nostra: 349 udienze, 1314 interrogatori, due requisitorie maratona dei pubblici ministeri, 635 arringhe difensive di oltre 200 avvocati, 475 imputati, 19 ergastoli inflitti, 327 condanne, 114 assoluzioni, 2665 anni di reclusione

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L'autoblindo. È rimasto nell’immaginario quel mezzo militare che come un elefante di Annibale sulle Alpi, suscitando lo stesso sgomento, ansimò lungo le strade di Palermo, per proteggere l’aula bunker dell’Ucciardone. Divenne il simbolo del terrore di essere assaliti, quel mostro d’acciaio. Triste presenza di uno Stato che sempre aveva abbandonato l’isola lontana, destinata a laboratorio delle trame più oscure.  Uno Stato che ora si ricordava di essere presente anche in terra di infedeli, seppur mostrando il braccio armato. L'aula bunker restò poi a ricordo imperituro di quel tempo, entrando a far parte degli emblemi cittadini al pari della Zisa, di palazzo dei Normanni, della cattedrale.

Antonio Calabrò, trent'anni fa, era redattore capo de L'Ora. Nella sede del giornale confluirono in quei giorni le decine di fascicoli dell'ordinanza-sentenza del pool dei giudici antimafia, con la quale si rinviava a giudizio tutta un'epoca. Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta: avevano finito quel mostruoso lavoro relegati al confino nell'isola dell'Asinara, dove erano stati deportati per preservarne l'incolumità dopo la terribile estate dell'85, quando al culmine di una sequenza di sangue Cosa Nostra aveva ucciso i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà, i primi cacciatori di mafiosi. Oggi Calabrò ha riavvolto il film in un libro ("I mille morti di Palermo", Mondadori, pp.256, euro 18,50), che anzitutto offre le cifre di quel lontano evento, utili a comprenderne la portata: 349 udienze, 1314 interrogatori, due requisitorie maratona dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, 635 arringhe difensive da parte degli oltre 200 avvocati, 475 imputati, 19 ergastoli inflitti, 327 condanne, 114 assoluzioni, 2665 anni di reclusione comminati.
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Fu la vittoria di Giovanni Falcone. Quella sentenza di primo grado venne confermata fino in Cassazione. Per la prima volta Cosa Nostra veniva condannata. La chiave di volta era stato il pentimento di Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile, estradato, per tre mesi interrogato in gran segreto a Roma. Le sue parole abbatterono un impero, quello che dagli anni ‘50 governava la Sicilia, in combutta con i mitra prima dei clan palermitani (i Bontate, gli Inzerillo), poi con le lupare corleonesi (i Riina, i Provenzano): la potente Dc di Vito Ciancimino, Salvo Lima, Giovanni Gioia, degli esattori Nino e Ignazio Salvo, di Arturo Cassina, dei cavalieri del lavoro di Catania.

La guerra che i corleonesi avevano mosso alle cosche palermitane aveva mietuto mille morti. E non solo: tutte le istituzioni dello Stato erano state decapitate. Magistrati, poliziotti, carabineri, giornalisti, politici, in una palingenesi di nomi e omicidi eccellenti. Tra l'85 e l'86 il cronista di giudiziaria de L'Ora , Enzo Raffaele curava la pubblicazione delle rivelazioni dei pentiti del Maxiprocesso, ricostruzioni fitte di nomi e circostanze, come mai a Palermo si erano sentite. Ogni giorno il giornale andava esaurito, spesso prima di arrivare nelle edicole. A volte bastavano gli strilloni in strada.

Venivano detti nomi che prima di allora non si potevano neppure accennare. Anselmo Calaciura, che per il Giornale di Sicilia , seguì dall'inizio il "processone", ebbe un‘espressione felice per descrivere la situazione: l'evento aveva spaccato in due Palermo. Favorevoli e contrari. La divisione attraversava ogni strato sociale, ogni categoria professionale, ogni famiglia, persino ogni tavola da pranzo. A volte metteva in disaccordo con se stessi persino le singole persone. Lo scrittore Leonardo Sciascia, per esempio. Assistette dalla sala stampa del bunker alla deposizione di Tommaso Buscetta. Ne uscì sgomento, e lo scrisse. Ma poi, a sentenza avvenuta, plaudì il Maxi: gli piacquero le assoluzioni che si alternarono alle condanne, a riprova che non era stata una sentenza "politica", dettata dalla ragion di Stato.
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Cosa è rimasto adesso, di quella rivoluzione copernicana? Come noto, la Cosa Nostra che aveva accettato una "tregua" durante il processo, riprese in mano la strategia terrorista. Dapprima chiuse i conti con chi aveva, forse, promesso nuove impunità (Ignazio Salvo, Lima), poi aprì i crateri delle stragi del ‘92 (Capaci e via D'Amelio), infine terrorizzò l'Italia con gli attentati del '93. Era davvero troppo. Così la vecchia mafia fini per autodistruggersi tra arresti, pentimenti, trappole. Senza più Falcone e Borsellino, si aprì con Caselli procuratore la stagione dei processi eccellenti (Andreotti, Contrada, Dell'Utri, Mannino, Cuffaro, Mori, in un alternarsi di condanne e assoluzioni), con Grasso procuratore giunse il periodo della stabilizzazione e delle polemiche interne, infine la fase del processo sulla Trattativa Stato-mafia.

Un filo unico, per quanto ingarbugliato, collega tutte le storie. Gli ultimi capitoli sono stati il depistaggio dell'inchiesta Borsellino (il finto pentito Scarantino smentito da Spatuzza, per altro il killer di padre Puglisi) e il conflitto tra procura di Palermo e Quirinale. Con, in appendice, la scoperta recente dei finti antimafiosi nell'antimafia.

Oggi è un anno zero. Il Maxiprocesso ha vinto la partita, la mafia è stata condannata. A prezzo della vita di Falcone e Borsellino e di tanti servitori dello Stato. Forse oggi Cosa Nostra non c'è più, almeno come l'abbiamo conosciuta in passato. Forse nessuno si lamenta più, come nel biennio 85-86, di scorte e sirene per le strade. Forse non c'è più un avvocato dei boss che, entrando nel bunker dell'Ucciardone, diceva al bar: «Tutte minchiate, poi arriviamo in Cassazione e saremo tutti assolti». Forse non ci sono più latitanti (Michele Greco, Riina, Provenzano) che vengano arrestati dopo decenni di sospetta impunità, dando la sensazione di un meccanismo a orologeria dettato da reciproche convenienze. Oggi (e questo senza forse) non si spara più lungo le strade. Ma la guerra civile italiana ci ha lasciato in circolo tossine, trasformandosi in un conflitto di carta. Il cosiddetto fronte della giustizia e quello altrettanto cosiddetto delle garanzie continuano a guardarsi in cagnesco, come parenti serpenti. E i siciliani, come gli italiani, continuano a non avere una memoria condivisa.