La strada per il Nobel, la soluzione vincente di Grazia Deledda

Grazia Deledda nello studio della sua casa romana

Grazia Deledda nello studio della sua casa romana

(ospito con orgoglio questo interessantissimo e ricchissimo post di Angela Guiso, saggista, critica letteraria, autrice di diversi libri. È la consulente critica della mostra bibliografica "Parole. Un percorso tra le opere di Grazia Deledda" - a Sassari dal 24 al 26 novembre 2016, ospitata dalla Fondazione di Sardegna in via Carlo Alberto 7 - promossa da Legacoop e realizzata dalla Cooperativa per i servizi bibliotecari di Nuoro)

 

di ANGELA GUISO

È possibile che qualcuno si fosse sorpreso quando Giuseppe Castiglia, magistrato, giornalista, avvocato, professore di Filosofia del Diritto all'Università di Sassari aveva dato inizio alla sua arringa, pronunciata davanti alla Corte d’Assise di Sassari nelle udienze del 21 e 22 giugno 1917. Era la terza tappa di un processo che si era protratto dal 21 marzo al 22 giugno del 1917.

L’avvocato Castiglia era il difensore dell’orgolese Antonio Devaddis e del suo genitore Giuseppe, abbattuto dalla condanna del figlio Battista, devastato dalla figlia bandita Pasqua. In gabbia c’erano sette imputati, superstiti di un’istruttoria che aveva coinvolto settanta persone, accusate di aver ucciso quindici fra uomini e bambini. Accanto una schiera di difensori: dal giovane Mario Berlinguer (il padre di Enrico) a Michele Saba, Luigi Morittu, Sebastiano Puligheddu, Salvatore Satta Marchi, Ciriaco Offeddu, Giovanni Zirolia, Raffaele Sardella. L’esordio del celebre avvocato fu certamente lontano dalle attese di un’aula di giustizia:

“Entrando a parlare della causa, ma facendo ancora un’altra briciola di saluto, permettetemi, signori Giurati, che io saluti e ringrazi, a nome dei colleghi tutti che me ne hanno dato espresso incarico, colei che è onore della Sardegna e anche onore della letteratura italiana, colei per la quale siamo simpaticamente noti in tutto il mondo civile, e anche in Germania: Grazia Deledda! Questa donna che non è d’ingegno per la buona ragione che è un genio, ma che ha un gran cuore, un gran cuore di sarda, un gran cuore di nuorese, fu pregata verso il principio di questo dibattimento dal collegio della difesa di interporre la sua parola calda e autorevole perché i testimoni potessero venire dal fronte, perché si potesse rendere giustizia a questi poveretti. Ed essa mi rispondeva, in data 19 marzo: ‘Ringrazio lei e i suoi egregi colleghi per la deferenza dimostratami; farò quanto potrò per fare cosa grata a lei e ai suoi egregi colleghi e per quel sentimento di giustizia che certamente il caso merita’. Io prego gli amici nuoresi di conservare questa lettera.” (Giuseppe Castiglia, In difesa degli accusati dei fatti di Orgosolo, in I Rostri. Rassegna di Vita Forense I, Anno I – N. 10 – 11 -12, novembre – dicembre 1929-VIII, pp. 277-315).

Nel 1917 la scrittrice nuorese era famosa, a Sassari, fin da giovane, aveva dato molto con gli scritti su quotidiani e riviste. All’amico Luigi Falchi, sassarese, aveva chiesto di occuparsi del materiale folklorico di “Sassari e dintorni” per contribuire alla costituzione della Società del folklore, in accordo con Angelo de Gubernatis. Di Sassari era Giuseppe Biasi, l’amico che avrebbe illustrato tanta sua produzione letteraria, di Sassari Remo Branca del quale avrebbe recensito un libro dalle pagine del Corriere della Sera del 12 giugno 1933 con lo stesso titolo dell’opera, Vita prodigiosa di Fra Ignazio Da Laconi, e al quale il figlio Sardus avrebbe donato la prima pagina del romanzo postumo Cosima, da Branca e Francesco Pala pubblicata in Vita Poesia di Sardegna nel 1938. Di Sassari era Mario Mossa Demurtas, il cui ritratto è stato scelto come effigie della locandina della mostra bibliografica itinerante Parole, dedicata alla scrittrice.

Una tappa, Sassari, ma è solo un esempio, del lungo cammino che l’aveva vista adolescente inquieta a Nuoro. Un luogo della più vasta Sardegna prima della parabola romana. Tappe biografiche e culturali pensate e realizzate con l’obiettivo della gloria e dell’arte, e con le idee da sempre chiare.

Questa, del 15 maggio 1892, la lettera a Epaminonda Provaglio:

“Ora sono entrata anche nella Natura ed Arte, autorevole rivista di casa Vallardi diretta dal De Gubernatis: fra numeri comincerà a pubblicare una mia novella sarda (…) Dalla Cronaca D’Arte, poi, dove mi promettono di parlare di Fior di Sardegna, mi chiedono pure qualche cosa. Vedi dunque che vado sempre avanti! A poco a poco! C’è molto tempo dinnanzi a me e io non mi affretto perché per mia natura sono calma e paziente! Quando arriverò sarò giunta, non è vero?”

La scrittrice ha ventun anni e già si muove secondo due binari, una procedura  che affiora nelle lettere successive. Da una parte è tesa a creare la sua immagine di donna vincente, dall’altra riferisce delle opere e dei luoghi in cui scrive, in questo caso in Natura ed Arte e  Cronaca d’arte, che allora si stampava a Milano sotto la direzione di Ugo Valcarenghi, e di cui era collaboratrice grazie a Gemma Ferruggia come nella lettera a Stanis Manca dell’8 ottobre 1891. “Ed è per mezzo di Gemma Ferruggia sono stata accolta collaboratrice nella splendida Cronaca d’arte.”

Una prassi consueta quella di parlare di sé stessa - in qualunque ambito epistolare: amicale o amoroso – e di un suo romanzo o  novella e, insieme, di mostrare i progressi con le riviste, strumento indispensabile del suo crescente affermarsi.

Del 7 maggio 1893 è invece la lettera a Luigi Falchi a proposito della costituenda Società italiana per il folklore e del connesso coordinamento. È lì che la scrittrice decide di guidare il gruppo sardo dopo un’iniziale, ma breve, indecisione “io mi metto modestamente tra le file: o meglio, sì, mi metto a capo, giacché un capo deve esserci”.

Ad Angelo de Gubernatis, invece,  così si rivolge il 22 giugno 1893:

“In fondo in fondo ho una vena caustica che mi fa ridere delle debolezze umane – mie e degli altri – e ad ogni modo sono superiore alla moltitudine e sono felice dei miei stessi sconforti perché essi appunto mi fanno fede della mia superiorità”.

Col medesimo piglio, e con parole solo in apparenza diverse, così il 26 dicembre 1899 al futuro marito, ricordando il momentaneo esodo da Nuoro per Cagliari dopo la conclusione della vicenda con Andrea Pirodda.

“Eppure, a un certo punto, mi affacciai al finestrino, guardai il paesaggio fuggente, studiai le teste che apparivano agli altri finestrini, la folla che appariva in una stazione del Campidano, pensai al mio essere, alla mia coscienza d’artista, alla superiorità che sento di avere sulla folla, alla potenza occulta che illumina l’anima mia anche quando il dolore la opprime, e mi sentii forte e invincibile nella mia piccolezza, nella mia fragilità, nella mia solitudine. Sì sì bisogna ch’io te lo dica (del resto tu lo hai già capito) io sono forte, fortissima: guardo in faccia il dolore, la tristezza, ogni viltà, ogni miseria della vita: il giorno in cui sentirei d’esser vile o appena debole mi ucciderei: meglio esser morti che vili. Ma quel giorno non verrà mai”.

Tanto gli erano piaciute queste riflessioni che Momigliano le ripropose sul Corriere della Sera.

Se questa era l’autoanalisi e la lucida coscienza di sé, figuriamoci quando si occupava di una sua creatura, libro o racconto che fosse. La novella pubblicata su una rivista, o il libro finalmente edito, era il frutto di un intreccio di relazioni: con i suoi corrispondenti epistolari, gli editori, gli illustratori, i primi critici. Senza fretta, apparentemente, in realtà con assillo costante fino al raggiungimento dell’obiettivo, e fino a stabilire i criteri della sua pubblicazione. Senza mai deflettere dai suoi fini.

Quanto le era costato diventare Grazia Deledda?

Molto, non soltanto per la scrittura ma anche per la strategia di fine e inesausta tessitura con interlocutori diversi, degna della tela di un ragno.

Si prenda un libro di particolare impegno, come La via del male, “il primo vero romanzo” (Anna Dolfi),  pubblicato nel 1896 da Speirani e Figli di Torino,  con la dedica: “Ad Alfredo Niceforo e Paolo Orano che amorosamente visitarono la  Sardegna”. Sebbene l’opera precedesse di un anno l’uscita del volume di Niceforo “Delinquenza in Sardegna. Note di antropologia criminale” (Sandron, Palermo 1897), è verosimile che dell’antropologo conoscesse “Le varietà umane e microcefaliche della Sardegna” (Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1896).

Un testo, La via del male, elaborato per più di vent'anni. Oltre al cambiamento del titolo, l'autrice compì varie revisioni. Del mutamento del titolo e dell’ansia per la sua pubblicazione ci sono tracce numerose nei vari epistolari. Ne accenna ad Angelo De Gubernatis l’8 maggio 1893: “Sto scrivendo un romanzo sardo (L’indomabile). Spero di ultimarlo fra due mesi”.

È nella corrispondenza con Epaminonda Provaglio del 15 gennaio 1893, mentre il 28 agosto di quell’anno chiede a De Gubernatis che pubblichi L’indomabile su Natura ed Arte. Il 4 settembre, nella lettera appena successiva, gli racconta  il contenuto del romanzo.

L’ 11 novembre 1893 ne parla ancora a Epaminonda Provaglio, il 20 gennaio 1894 gli rivela il titolo L’indomabile, ma già il 2 febbraio il titolo potrebbe essere accompagnato da quello di Pietro Benu, il 7 giugno 1895 scrive:

“Ciò che mi scrivi, che Umbertina di Chamery si è preso il titolo del mio romanzo, mi dispiace veramente, perché in realtà me lo ha rubato. Conosco questa scrittrice che è veneta, non milanese, ed ho avuto molta relazione con essa, però da più d’un anno non ci scriviamo più. Io le avevo scritto che scrivevo un romanzo intitolato L’indomabile, e vedo così essa – forse non l’avrà fatto apposta – non s’è fatta scrupolo di appropriarsi il titolo.”  È comunque decisa a lasciarlo immutato.

Da Nuoro, il primo settembre 1895, informa: “Ho cominciato un altro romanzo, e fra poco usciranno le mie Anime oneste che, mi pare di avertelo già detto, sono il rovescio dell’Indomabile. A proposito anche altre persone  mi hanno consigliato di cambiargli  titolo e mi è venuto in mente questo: La via del male. Ti piace? È poi emozionante come lo vuole l’editore, ed è nello stesso artistico e adatto al romanzo”.

E proprio in questa lettera dà un’indicazione molto importante: Anime oneste sarebbe il rovescio di La via del male, operazione che ripeterà con Nel deserto, il negativo fotografico di Canne al vento con Lia che, absente nel primo, ritorna in carne ed ossa, si fa per dire, dentro il romanzo “romano”.

Nel post scriptum della lettera da Nuoro del 1 marzo 1897, ancora al Provaglio: “Ti feci mandare dall’Editore La via del male, che rifeci tutto da cima a fondo, Spero avrai ricevuto.”

Come risulta chiaro dalle lettere, il romanzo vede riscritture progressive, insieme è evidente lo sforzo di acquisire meriti presso gli amici con la citazione delle riviste presso le quali pubblica. Seguiranno i rapporti con gli editori e con gli illustratori, indispensabili tasselli per corredare di immagini la sua scrittura.

Fin da subito vigile lungo la strada, non facile, che la condurrà al premio Nobel, Grazia Deledda promuove sé stessa con determinazione. Un cammino sbalorditivo per il suo luogo d’origine e i tempi in cui ha vissuto.

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Un commento

  • Piano con i commenti eh?!? In fondo è stata l'unica donna Italiana e Sarda a vincere un Nobel.

    Per fortuna parleranno per sempre le sue grandi Opere Letterarie....grazie!!! Grazia...e scusa il bisticcio di parole.

    Saluti
    Gianni

    p.s. Se penso poi a quelli che lo vincono e non dicono manco bah!